Wild Calabria
paolo penni martelli
Abbiamo pedalato la Calabria da Nord a Sud, attraversando le montagne e i quattro parchi naturali: il Pollino, la Sila, le Serre e l’Aspromonte. Quando alla fine siamo arrivati a Reggio Calabria, ci siamo lasciati alle spalle cinquecentosessantasettevirgolaventisei chilometri e diecimilacentonovanta metri di dislivello, per un tempo complessivo di ventisette ore e cinquantotto minuti.
Iniziamo da Laino Borgo, giusto il primo paesino calabro che si incontra provenendo dalla Basilicata. Prepariamo le bici per il giorno dopo e poi via a cena. E qui già capiamo quale sarà uno dei grossi problemi del nostro viaggio: non ingrassare (alla fine del racconto ci saranno sorprese, ve lo prometto).
Ci avevano detto come in quei giorni fosse in giro per l’Italia un certo Caronte, ma nessuno si aspettava di dover leggere sul computerino della bici 48 °C, oltretutto mentre stavamo pedalando, mica fermi sotto il sole. 48 °C sono tanti, troppi; avevo letto da qualche parte che dai 50 °C in poi la vita dell’uomo è in serio pericolo. Tutto bene, insomma: eravamo davvero lontani solo due gradi dall’estinzione? Con tutta la saggezza che ci contraddistingue, decidiamo di fare pausa obbligatoria dalle 13 alle 16, ogni giorno, giusto per evitare anche gli insulti dei nostri genitori. Sembrava di avere costantemente un phon acceso di fianco alla faccia. Dio, quanto avrei desiderato avere i capelli, se non altro per poterli bagnare e sentirli asciugare in pochi secondi. Invece no, nessuno di noi poteva provare l’ebbrezza di questa esperienza. Il nostro gruppetto è una compatta classe 1983. Ultimi superstiti di un’adolescenza senza cellulare né internet, da piccoli sognavamo di viaggiare e di vedere il mondo. Ora i sedicenni sognano di essere idoli nei social, senza muoversi da casa. Noi, che di anni ne abbiamo compiuti quaranta, ci concediamo il lusso di essere attraenti anche senza peli sulla testa (che poi, se i capelli fossero importanti, starebbero dentro la testa). Insomma, ci presentiamo. Buongiorno Calabria! Siamo i ragazzi di Alvento e prima d’ora non ti abbiamo mai conosciuta.
INTORNO AL POLLINO: SANTINI E PEPERONCINI
La prima cosa che ci colpisce è il verde, la seconda è la religione. Il verde non te lo aspetti in una regione che immagini riarsa dal sole. La religione invece è il biglietto di presentazione di ogni paesino: gli avvisi degli annunci funebri, le croci, le bandiere dei santi sono un po’ ovunque. È una bella sensazione, ti fa capire quanto sia inevitabile, ineluttabile il destino. È come se tutto questo ti facesse ricordare ogni giorno di vivere, di vivere davvero, perché poi non si sa mai. Che tu sia credente oppure no, ti senti protetto, come quando la nonna ti dice che prega per te ogni sera. I luoghi in cui si prega molto o in cui la fede è ben radicata regalano protezione a tutti. Ce n’è per tutti. Si inizia subito in salita e la strada ci fa capire che non sarà una passeggiata.
Stupiscono e sorprendono da subito la cortesia e la pazienza degli automobilisti: mai un colpo di clacson e quasi sempre un accenno di saluto nel momento in cui, senza fretta e quando ne hanno la possibilità in sicurezza, ci sorpassano. Lo so che dovrebbe essere la norma ovunque, ma siccome non lo è, è stata una gradita sorpresa. Tanto che è la prima cosa che ci viene da raccontare a tutti quelli che incontriamo sul nostro cammino.
La nostra prima pausa pranzo è alla Catasta, a Campotenese, subito dopo Mormanno.
Il paesaggio, strada facendo, diventa sempre meno collinare e sempre più montano. Il programma prevede una media di 1.500 metri di dislivello al giorno: per cui sappiamo che, prima o poi, le salite dure arriveranno.
All’improvviso, quando meno te lo aspetti, ci troviamo di fronte a una piccola cattedrale nel deserto. È una struttura bellissima, fatta tutta di legno, anzi, di tronchi ravvicinati uno all’altro. Sembra una nave spaziale ambientalista. Ci accolgono con succhi di frutta bio fatti in casa e con i tipici dolci, i bocconotti, ripieni di marmellata. All’interno è fresco, nonostante la temperatura che c’è fuori. La Catasta è un po’ la porta del Parco del Pollino: non è semplicemente un centro visitatori in cui acquisire tutte le informazioni sul territorio che si vuole conoscere; uno ci può venire semplicemente per studiare, se a casa non trova lo spazio e il tempo giusto per farlo, come succedeva a me. E ci puoi stare senza che nessuno ti chieda per forza di consumare qualcosa, cibo o bevande. A proposito di cibo, qui avviene anche il nostro primo contatto con il peperoncino, uno dei simboli per eccellenza della cultura e dell’amore calabrese. I miei due compagni di viaggio, che sono particolarmente amanti del piccante, non vedono l’ora di mettersi alla prova. Io, a dire il vero, gestisco meglio il wasabi, che va su dritto al cervello, rispetto all’amico peperoncino, rosso o verde che sia, che scende invece veloce nell’esofago.
Al tramonto arriviamo nella tenuta dove ci aspettano per dormire. Ci apre le porte il proprietario, l’avvocato Pacelli, napoletano in pensione e trapiantato calabrese.
È incredibile. I paesaggi con i vigneti hanno tutti un sapore simile, accogliente e familiare. Potresti essere ovunque, ma con un bicchiere di vino in mano sembra di essere nel posto che conosci da sempre e che ti ha sempre voluto bene.
La serata trascorre parlando di vino, di vitigni e di vite in generale, vite quelle vissute. Vado a letto con un bellissimo geco che mi osserva appiccicato sul muro della stanza. E mi promette di mangiarsi tutte le zanzare.
TRA LA SILA E LE SERRE: STRETTI TRA I DUE MARI
Il mattino ci infiliamo nella Valle dell’Esaro e attraversiamo la bellissima Acri. Poi, quasi d’un tratto, cambia qualcosa. Come se avessero modificato una scenografia sul palcoscenico, ci troviamo in un paesaggio prealpino. Boschi di conifere a perdita d’occhio, l’apparizione magica di laghetti montani, come il lago Cecita e il lago Arvo. Nessuno ci crederebbe, se raccontassi che la Calabria è anche questo. Tutt’intorno è profumo di legno e di bosco, l’acqua è di un colore blu freddo che, nonostante il caldo, non ti fa venir voglia di un bagno ma che nello stesso tempo ti ipnotizza tanto da non riuscire a distogliere lo sguardo da quello specchio incantato.
Era proprio quello che cercavamo nel nostro giro in bici: perderci nei boschi della Calabria e raccontare qualcosa di diverso, qualcosa che nessuno si aspetta.
C’è così tanto silenzio in mezzo agli alberi, che possono fare rumore. Arriviamo a Tiriolo. È questo il punto più stretto della penisola calabrese: soltanto 27 chilometri di terra separano i due mari. Il paesino sta in alto e lo sguardo abbraccia in poco spazio il Tirreno da un lato e lo Ionio dall’altro. Il centro di Tiriolo è piccolo e discreto. Sulla piazza incombe la parte più vecchia dell’abitato, abbarbicata a un cucuzzolo di rocce. Stanotte dormiremo lassù. Ora io come faccio a non parlarvi del proprietario dell’hotel che ci ha ospitato? Si presenta e ci dice che ci dà venti minuti per prepararci. Poi ci porterà a fare un giro per il paese. Noi siamo stanchi, veramente cotti. Io, oltretutto, neanche un’ora prima avevo preso in testa un ramo staccato dal vento: se non avessi avuto il casco, adesso non sarei qui a scrivere quello che state leggendo.
Facciamo appena in tempo a farci una doccia e l’unica cosa che vorremmo davvero fare è sederci a un tavolo e sfondarci di birre. Invece usciamo e lo aspettiamo sulla porta dell’hotel. Lo vediamo arrivare da lontano, alla guida di un’Ape Calessina. Dice che ce ne sono solo cento modelli in tutto il mondo e la sua gliel’hanno fatta su sua richiesta personale. Dice anche che un’altra, ovviamente tutta bianca, la possiede il Papa, a cui lui ha mandato una lettera per sfidarlo ufficialmente in una cronoscalata dal centro del paese fino in cima all’hotel.
Saliamo tutti e tre sull’Ape ed è subito Italia, è subito Calabria, è subito il Bel Paese. Che sì, va bene gli spaghetti, la mafia e il mandolino, ma è soprattutto il posto dove può succedere che un perfetto sconosciuto ti faccia vivere, in venti minuti, esperienze così singolari, che nemmeno pagando avresti potuto provare. L’Italia è anche uno sconosciuto che guida un’Ape accelerando con la mano sinistra, perché la destra la usa per reggere la sigaretta che sta fumando e nel frattempo racconta storie che valgono decine di libri e decine di film. Il tutto mentre c’è un saluto per chiunque si incontri sul cammino, un saluto ricambiato ovviamente, perché la differenza tra il solo salutare e l’essere contemporaneamente salutati è sottile, ma fondamentale. Il momento che tutti noi tre temevamo sarebbe stata la mazzata mortale al termine della nostra giornata in bicicletta si è rivelato invece una delle migliori esperienze del viaggio. E questo grazie all’incontro con le persone che non ti aspetti. Senza di questo sarebbe stata l’ennesima cartolina di mare e alberi in fiore.
ASPROMONTE: IL SAPORE DEL SUD
Il penultimo giorno lo passiamo attraversando l’Aspromonte. Ci aspetta un rifugio dove dormiremo che, volutamente, non è per niente facile da trovare. I ragazzi che lo gestiscono lavorano per promuovere il territorio, ma con giudizio, tenendo a distanza il turismo massificato. E forse fanno davvero bene così. La cena è incredibile. Tutta rigorosamente a base di prodotti locali, i cui colori e sapori, mescolati saggiamente, fanno dimenticare la stanchezza che ci assale. ’Nduja, parmigiana, bruschette, pomodori secchi, ricotta, taglieri di salumi e formaggi, frittata di cipolle e patate, maccheroni al sugo di salsiccia. Per la pasta con le melanzane ’mbuttunate non riesco a trovare aggettivi: dovete solo andare a provarla. Il vino scorre, la vita ci sorride nelle piccole cose, nei momenti genuini.
C’è luce fino a quando i ragazzi che ci ospitano se ne vanno via, spegnendo il piccolo generatore. Rimaniamo da soli, senza corrente, al buio, a goderci tutto quello a cui non siamo più abituati: i rumori e gli odori della natura. Ci fa compagnia un cane trovatello. Si chiama Libero ed è un incrocio di razze un po’ troppo casuali. Zoppica e non è per nulla minaccioso, ma il suo abbaiare nel buio sembra quello di un lupo. A proteggerci ci penserà lui.
A ogni tappa di questo viaggio abbiamo rincorso il tramonto, con la certezza che anche quel giorno avremmo pranzato bene e cenato meglio.
Più della metà della felicità di una persona ruota attorno al sonno, al cibo e all’amore.
Io non so in che modo una pesca riesca a perdere tutto il sapore viaggiando tra Reggio Calabria e Brescia; non so perché un pomodoro si riempia d’acqua tra Lecce e Milano.
In Calabria siamo riusciti a ingrassare pedalando nove ore al giorno. Come ai fumatori incalliti che hanno abbandonato il vizio della sigaretta e hanno recuperato l’uso delle papille gustative, ogni cosa ci sembrava mai provata.
Sarà successo anche a voi di pensare io mi alleno in bici solo per poter poi mangiare quello che voglio. Ecco, è proprio così. Abbiamo riscoperto sapori che pensavamo persi per sempre, il piacere del cibo, dall’antipasto al dolce, per finire con gli amari, piccanti anche quelli, volendo.
Ci siamo. Anche le colline e le montagne sono stufe di viaggiare e finalmente si decidono a buttarsi in mare. Di fronte a noi vediamo la Sicilia, l’Etna fa capolino tra le nuvole, il blu del cielo e del mare si confondono e sembrano nati dalla stessa madre, gemelli identici separati alla nascita.
La lingua di mare che divide queste due terre sembra davvero un niente.
Reggio Calabria è poco sotto di noi. A quanto pare, la prima cosa da fare arrivati in centro è mangiare il gelato, possibilmente dentro una brioche. Fatto. Ora la voglia di mare è tantissima, dopo cinque giorni senza quasi vederlo. Non facciamo caso alla digestione del gelato e ci buttiamo in acqua.
Facciamo il bagno sotto il famoso chilometro più bello d’Italia, come l’aveva definito Gabriele D’Annunzio. In realtà, è molto più di un chilometro – sono 1.700 metri – ed è una passeggiata bellissima, degna introduzione alla città dei Bronzi di Riace.
Più scende il tramonto, più la luce diventa calda e accogliente. La Cattedrale osserva silenziosa l’inizio dell’ora degli aperitivi in piazza. Noi non possiamo far altro che essere parte di questo quadro. Mangiamo pesce, beviamo vino, soddisfatti di aver conosciuto un po’ di più il nostro Paese.
Paolo Penni Martelli, fotografo professionista e ciclista racconta le sue due passioni, la fotografia e la bicicletta. È home photographer e copywriter di Alvento - rivista italiana di ciclismo..
Racconto pubblicato su Destinations – Italy unknown / 2, lo speciale di Alvento dedicato al bikepacking [Novembre 2023] e su destinations.bike